I LUMI DEL SECOLO
OK! Secondo te sono svitato come una lampadina. Ma tu lo sai cos’è una lampadina?
Una lampadina è un terminale è la prova lampante della presenza di Dio nell’universo.
Ogni tanto Dio accende un’altra stella così, senza un motivo apparente. La sera poi accende tante lampadine; e questo lo fa a ragion veduta.
«Tante quante?» Tante quante le stelle, esattamente. Per ogni stella in cielo qua s’accende la corrispondente lampadina.
Nemmeno Dio però la potrà accendere se non la troverà ben avvitata nella sua appropriata impanatura.
Dio infatti fornisce la corrente. Non fa mica, per noi, l’elettricista.
SE MAI UN GIORNO MORRO’
Se mai un giorno morrò, accadrà di domenica.
E in quel caso e in quel giorno sarò io stesso a morire.
Se non l’ho fatto fin oggi è stato per vari incombenti.
M’è toccato farmi sostituire da parenti, amici, conoscenti.
Se mai un giorno morrò, vedrete, avverrà di domenica.
DEI CADUTI A NASSIRYA
Dei caduti a Nassirya l’umanità è la patria la pace il messaggio tradito la fiducia nell’altro la vittima.
e il ricordo – ad antenna ammainata – è una duna di sabbia nel vento cui passano accanto i cammelli a testa alta.
HANNO MURATO…
Hanno murato un colombo nel torrione facendo i restauri.
In corridori anulari ho misurato le stanze chiuse delle mie abitudini.
Uno sbattere d’ali soffocato lungo lo spessore del muro -intorno, in tondo – al primo schiarire del giorno.
A TARGHE ALTERNE
Diafani vetri denudano l’alba.
Lava la pioggia, intrepida di grandine, il malumore stantio della notte.
Rallenterò il respiro: basterebbe un fiato per appannare la grande vetrata.
Ma quanto cresce di notte la barba!
No, non è colpa tua. La vita è ingiusta; come le targhe alterne.
COPPE CARNOSE DI CAMELIE
La luna rimasta accesa tutta la notte e oltre ha tacitamente raccolto sotto il suo paralume la famiglia.
La famiglia: io, tu; tu, forse io, la casa col giardino e la terrazza…
Si slarga cerea dappertutto l’alba e ci estrania l’un l’altro. Il nostro amore un tempo passava come un cassino sul mondo.
Trent’anni, oggi, che siamo in questa casa; trent’anni, quanti ne hanno il cedro qui e l’ultimo dei nostri figli altrove.
Su braccia anchilosate le foglie degli aranci nel patio cercano di riassorbire la ruggine.
Lungo gli archi scrostati del portico mani grinzose attorniano sgomente corolle colme e carnose di camelie.
IL TEMPO DELLE ROSE
Lascia un sapore di mandorle in bocca Il vino color perla di Sibari.
Humilemque vidimus Italiam venendo dalla Grecia, quella piccola…
Muovevano a passo di danza al suono dei flauti i cavalli.
Roteando, un falco coglie in un colpo d’occhio entrambi i mari.
Umili i muli li hanno avvicinati. Oggi, non anfore d’olio né incenso Né sacchi di grano né ambra portano a passo affrettato sul dorso, ma cofane di rose da Roseto.
Ne faranno ghirlande per banchetti e corone per ebbri commensali. Petali volteggianti dal soffitto, petali in infusi e in gonfietti per i mortali assimilati ai numi nel beato far niente dei ricchi.
Incoronati di rose i cavalli, ebbri di musica entravano in battaglia.
Pure, come morso di serpente è a volte la puntura d’una rosa: scalciano i muli stretti in mezzo ai cesti, succhiano i mulattieri la goccia di sangue che affiora sulle dita.
Quanto lavoro per scontare l’ozio! Humilemque vidimus Americam venendo dalla Grecia, quella grande.
Puntute come spini le nocche della vecchie che sgranano il rosario delle quindici poste dell’attesa del tempo di quand’erano ragazze.
Nessuno sparge di petali la testa nella terra dei vecchi e dei bambini. Di quelle rose restano le spine. ed un sapore violamaro in bocca.
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