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ALFREDO ENTITA': Realtà e penetrazione nella ritrattistica di TOMINZ

 

 

 

 

     Proviamoci, con l’aiuto del magnifico catalogo, a passare in rassegna l’opera di Tominz. Il nostro giudizio è positivo in prevalenza evrebbe potuto essere del tutto positivo se non avessimo riscontrato in Tominz, pur inquadrato nel suo tempo, la abilità della macchina fotografica, l’ossessione del particolare, la rigida osservanza o debolezza per tanti ammennicoli che finiscono col nuocere più che giovare, ai «pazienti» che gli posano per farsi sì pedissequamente ritrarre. Si potrebbe, per altro verso, definire meticoloso, preciso, obbiettivo, schiavo sin troppo delle clientela che ben la rimunerava per questo e non per fare opera d’arte che soddisfacesse, prima che il cliente, l’intima essenza dell’operatore, meglio, un po’ la sua ambizione d’artista, che non vorremmo certo vedere appagata nel volgare autoritratto al 33 del catalogo, anche se in origine fosse «la porta della latrina della Villa di Gradiscutta», e la sorridente e soddisfatta bonacciona e compiaciuta maschera facciale abbia un non so che di composta paesana bonomia per l’atto canzonatorio? Poco decente e poco decoroso, anche se trova riscontro nella lontana commedia greca, non certo così volgarmente ostentato.

     Carattere estroso, bizzarro? Può anche darsi; ma non ce lo dimostra certo con questo, in questo autoritratto ( ma perché non si è pensato di liberarlo della parte plebea?), intendendo noi per altro per bizzarria estro o spirito che siano, lungi dal riscontrare nel soggetto citato dalla posa sconcia, non certo destinato ad elevare eticamente, ad educare, a trasportarci «in più spirabili aree».

     Sorvoliamo per amor di spazio e brevità, su tanta ritrattistica frutto di bravura di mestiere e di esercizio, ma non di penetrante ed acuta osservazione, di mordente creazione. È si il pittore della realtà, del vero, del soggetto come oggetto della natura da rappresentare così come si vede e può vederlo chiunque e con l’occhio e la verve penetrante e «tonificante» di un artista spirito inquieto più portato a scavare in profondità  che a spaziare i superficie. Eppure, andando al recente e lontano passato, gli esempi non ci mancano. Citiamo per tutti il provinciale Antonello degli Antoni da Messina, che abbiamo più a portata di mano e di cui il ritratto de Vecchio della Mandralisca di Cefalù è un esempio bruciante ed imbarazzante direi di realismo penetrato e trasceso sino a riflettere integralmente lo spirito indagatore del sommo artista.

    Se dovessimo giudicare il Tominz dai ritratti dell’ Imperatore Francesco Primo sì accurati nell’abbigliamento e negli oggetti che lo decorano tutto, che compongono lo ambiente minutamente annotato o descritto, o dalla Lettrice dalla comune posa di tante sante leggenti e meditanti (sa più di copia libera che d’altro) o da qualche soggetto religioso (ma il soggetto religioso non c’è parso affar suo) finiremmo per rendergli un cattivo servizio.

    Occorre invece scegliere «fior da fiore», riandando alla ritrattistica come alla cosa più congeniale al suo temperamento, cominciando dall’autoritratto col fratello dove si riscontrano particolari freschi, gustosi, (assai bello lo scorcio di paesaggio goriziano sovrasta dal turrito grifagno Castello), al ritratto dell’Arcivescovo Walland, all’Autoritratto alla finestra, al maestro delle Poste Preinitsch, a Ciriaco Catraro, al pittore Bison, a Francesco Holzknecth, Amodei, Pasquale Scorcia, al coniuge Berle, fino al Botta, Gobbi, dal labbro tagliente come un fendente di scimitarra, al conte Giambattista Coronini Gromberg, Piergiacomo Leva (con la moglie), al Polacco  e al pensoso Parisi (nel ritratto della famiglia) dove il calore di un penetrato sentimento si comunica a tutto l’ambiente estendendosi al rimanente delle persone (moglie, bimbi, cani, sfondo paesistico). L’effige paterna e persino il bel ritratto di Zuan Parasulla ci sembrano il degno suggello di una vita operosa spesa nel ritrarre volti ed espressioni di un mondo nel quale era riuscito a penetrare più che in tutto il restante dalla sua attività di pittore di ritratti della bella società del suo tempo.

     Dispersivo, schiavo del particolare ornamentale ci è parso nei ritratti femminili esuberantemente decorati e decorativi, tranne in qualche eccezione come nel ritratto di Carolina Troppo la cui composta serenità e il penetrante sguardo, sentimenti nobilissimi a fior di pelle e la abilità del pittore nel saperli caldeggiare soprattutto attraverso un cromatismo delicato, opalescente, ricercato e penetrato ed una diffusa luminosità sapientemente distribuita, accortamente centrata, ne fanno davvero un autentico gioiello di ritrattistica femminile degno di una grande galleria.

     È un pittore da inquadrare certo nel suo tempo e nel suo ambiente, senza sbavature ed eccessive concessioni; tempo che Tominz assai bene rappresenta. Sa infatti ben fare le sue scelte interessanti e si compiace di particolari e fronzoli che spesso esorbitano dall’impegno artistico, interamente creativo. È chiaro che lavorava per gli altri e non per sé, tranne per la parte economica, certamente. E clienti da soddisfare, con nutrito censo, dovette certo averne molti.

     Vi sono, specie nell’abbigliamento femminile, compiaciute fredde ricerche decorative e virtuosismi che sanno un po’ di cineserie, quasi decorasse una superficie piana, inanimata, una stoffa o parte  sulla quali la decorazione vegetale si arrampica come un’edera ricama su una superficie muraria.

     Non avverte ciò che alla lontana alita all’orizzonte sconfinato dell’arte, non lo scalda ed entusiasma una certa padronanza del soggetto che, anziché dominare, si lascia dominare e del quale resta letteralmente schiavo, del quale è succube e pedissequo esecutore, sia pure con abile mestiere. Direi anzi che ad un certo spirito di libertà  e d’indipendenza  dal soggetto, che già andava facendo strada, ad un lievitare di tematismo surreale, antepone il gusto per il particolare, e reagisce al nuovo come a qualcosa di poco conveniente, di inaccettabile e corruttibile, di «strafare» dire.

     Buffi alle maniche, petti bombati, riccioli fronzuti, orecchini e collane e merletti. Per il Tominz, quasi volesse cogliere solo e più lo esteriore spirito di vanità femminile, l’ostentazione vuota dell’abbigliamento e dello addobbo e null’altro. Starei per dire che n’è schiavo lui stesso, e, ragioni pittoriche o di tavolozza a parte, se ne serve persino negli autoritratti, come in quello col fratello. Il suo repertorio è proprio quello che la frivola clientela femminile richiede ai loro ritrattisti ben remunerati, e il Tominz non vi si oppone, non riluttava. E confessiamo che ci siamo sforzati di penetrarne lo spirito, di addentrarci di più nel suo intimo, di cercare un qualche tormento inappagato per la rigida osservanza di quanto richiesto dalle committenti. Si salva, abbiam detto, col ritratto maschile privo di orpelli, forte.

    Niente, abbiam detto, allo infuori di mettere in bella posa i suoi personaggi e ritrarli in quelle loro pose stereotipe di sufficienza, di borghesia agiata e soddisfatta dal senso, come se non fosse lui l’autore del bel ritratto della Troppo.

     Abbiamo detto – ma abbiamo ragione di dubitarne – che  sarà sarà stato un temperamento bizzarro, incapace però di sfrondare l’albero umano dei suoi ritratti specie femminili di tutto il superfluo di cui carica ogni soggetto fino a trasformarlo in vivaio ramificato e tutti i ramoscelli e foglie, come il ritratto di Lucia di Demetrio di Trieste. Tutta la chincaglieria e tutte le cianfrusaglie di dubbio gusto li «appende» ai soggetti femminili in prevalenza, facendo così di ogni corpo una confusa bottega di antiquario.  Così, sfiocchetta vistosi colli di lana, fa ciondolare vistosi grappoli di orecchini di bella uva da tavola coltivata coi più moderni fertilizzanti indiadema tutte le teste di donna architettando pettinature turrite di borrominiana stravaganza dove il capriccio sta in luogo del sobrio. E si stenta veramente a parlare di estro, stile, temperamento e linguaggio di fronte alla farragine di buffi e velette, di foulard e cuffie, pizzi ed ondulati baveri e soprabaveri spesso sentiti come cose a se stanti, staccate dal soggetto al quale sono appiccicate. È evidente l’intento di volere interessare più col particolare o sovraccarico ornativo, con la quantità  piuttosto che con la qualità.

     Mi pare che occorrerebbe concludere col dire  che Tominz era il vero pittore della realtà: bravo, capace, consumato nel mestiere, ma, ma senza tanti problemi. Stampigliava abilmente e nient’altro.

     In qualche soggetto un pizzico di ironia e nient’altro. E se lodiamo la sua consumata capacità  di mestiere, la sua bravura, sinceramente convinti, non possiamo altrettanto dire che fu un temperamento estroso, che si impose dei problemi. La sua è una pittura accademica al cento per cento; però sobria, dignitosa, composta. Peccato quell’autoritratto di Gradiscutta. Non edifica, non potrà mai – in chi valuta seriamente e serenamente, senza spirito di campanile - procurargli lode tranne che di mestiere. Per il resto rimane il fatto plebeo. Ci pensi in avvenire chi si porrà il compito di riproporre la ritrattistica del buon Tominz. Come osservatore del reale, va, e va abbastanza bene, la confermiamo; forse da preferire a qualche suo contemporaneo più celebre.

     Lode sincera agli organizzatori goriziani per tanta manifestazione d’arte così decorosa, così dignitosamente presentata. Gente come questi benemeriti goriziani dalla coltura, potrebbe da noi fare miracoli avendo immensi campi inesplorati. Ci siano di monito e di esempio a tutti, in tutto.

 

Corriere di Sicilia, Catania; 5 novembre 1966