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I SOLITI NEGATI di FRANCO SPENA

 

 

 

 

 

 

 

EX MINIERA TRABIA TALLARITA

I SOLI NEGATI

 

Spesso l’arte intrattiene con la memoria un percorso particolare poiché non di rado capita che si ponga tra presente e passato , come tramite che perpetua nel tempo i segni della tradizione e della storia che fa rivivere nell’opera come evento contemporaneo. Per questo l’arte è entrata a far parte del grande restauro che ha coinvolto la ex miniera di zolfo Trabia Tallarita – che si trova tra i comuni di Sommatino e Riesi, in provincia di Caltanissetta - curato dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Caltanissetta, su progetto dell’architetto Alessandro Ferrara, che ha riportato a nuova luce la grande struttura dell’ex Centrale elettrica “Palladio” con i locali annessi. La Centrale elettrica della miniera è diventata un museo unico di archeologia industriale e nello stesso tempo di arte contemporanea, poiché negli spazi ristrutturati sono state inserite delle installazioni di alcuni artisti che, nel realizzare le loro opere, si sono ispirati al mondo della zolfara.

Il mondo della miniera rivive così anche nelle citazioni e nei linguaggi dell’arte degli artisti Calogero Barba, Lillo Giuliana, Michele Lambo, Leopoldo Mazzoleni, Franco Politano, Giuseppina Riggi, Salvatore Salamone, Franco Spena, Giusto Sucato, Agostino Tulumello, in un percorso che ha per titolo “I soli negati”, titolo che mette in evidenza l’oscuro e difficile lavoro dei minatori  che si svolgeva nelle oscurità del sottoterra.

Lopera di Calogero Barba ha per titolo “Forma e controforma” che, come dice Giusi Diana nella brochure di presentazione, è “tutta giocata sul rapporto tra i colori primari (blu, giallo e rosso), e sul contrappunto tra le distese forme orizzontali e la verticalità dell’elemento centrale (sorta di visualizzazione di un grado di estremo pericolo). In effetti Calogero Barba eleva un totem al sacrificio, costituito da un susseguirsi di forme nelle quali veniva colato lo zolfo, allineato a picconi separati dai loro manici quasi a costituire un alfabeto di segni minimali attraverso i quali il lavoro dello scavo nelle viscere della terra si associa alla solitudine e al segno struggente della fatica.

Lillo Giuliana, con l’opera “Gabbia”, ha voluto ricostruire con una serie di simboli la discesa nel sottoterra scolpendo degli elementi in marmo di Carrara incapsulati in teche di vetro e sistemati su alti prismi neri che simboleggiano i vari livelli di galleria e che alludono alla forma dell’ascensore. In una vasca nera ricolma di zolfo in polvere, spiccano i nomi dei caduti nella disgrazia del 1958 nella miniera di Gessolungo.

“Senza nome” è il titolo dell’installazione di Michele Lambo, una grande spirale di metallo ricoperta di fogli di giornale sui quali sono incollati dei manifesti funebri con la scritta cancellata e che origina da un elemento centrale luminoso. Dice Giusi Diana: “ il ricorso alla scrittura (anche nella sua variante negativa, la cancellatura) si coniuga con la tridimensionalità leggera di una spirale che diventa simbolo alchemico dell’ineluttabilità del destino; le parole di carta infatti convergono verso il fuoco distruttivo del rosso opercolo centrale”.

Leopoldo Mazzoleni con l’opera “La terra di sopra” presenta le sue strutture di legno spezzate e ricomposte, articolate e rese mobili da cerniere. I grandi segmenti così ottenuti, spaziano nell’aria sospesi a dei fili invisibili, come parole balbettate e sillabate che non riescono a pronunciare le frasi di dolore e di angoscia di chi, al contrario, sottoterra, come il minatore, soffre e fatica in un ineluttabile silenzio. Dice a proposito Giusi Diana: “La più espressionista delle opere in mostra fa un uso sapiente della linea spezzata nelle due strutture sospese in un drammatico, precario equilibrio”.

Franco Politano ha realizzato per l’occasione una grande vanga che, come dice il critico Giusi Diana, “si erge verso l’alto mostrando la nudità dolorosa delle sue estremità che si caratterizzano per la forma biforcuta simile a radici. Alla base della composizione un deposito di pietre di zolfo, accuratamente avvolte ciascuna in una singola busta di plastica, spasimanti in un mortale sottovuoto. Il senso di oppressione e di afasia che promana dall’installazione si fa efficace metafora di una condizione, quella dei lavoratori delle miniere costretti contro natura a vivere nei reconditi recessi del sottosuolo, lontani dal vivificante contatto con l’aria aperta”.

Giuseppina Riggi nella sua installazione si ispira a una poesia di Ignazio Buttitta nella quale il grande poeta siciliano dice in un verso: “Facitili di surfaru li figli”, frase che l’artista cita ripetutamente su quattro alti piedistalli neri sui quali sono sistemati altrettanti busti realizzati a grandi gesti plastici, colorati di giallo. “Quattro piccoli busti plasmati nello zolfo”, dice Giusi Diana, “affrontano il tema della memoria affidandosi ad una scultura che nel tentativo di dissolvere la materia, si avvicina alla lezione di Medardo Rosso. A tradire la natura concettuale dell’opera, al di là dell’apparente ricorso alla tradizione scultorea figurativa, la sottolineatura simbolica legata al colore nero in tragico contrasto con il giallo, ma soprattutto l’interessante uso dei piedistalli, parte integrante di un insieme installativo di grande rigore interpretativo. Dei cinque busti infatti, solo quattro poggiano eretti sulle loro basi, il quinto come un angelo caduto è dolentemente poggiato a terra, mancando del suo piedistallo. Una nota dissonante, delicata e struggente”.

Salvatore Salamone ha realizzato quasi un altare in un’opera intitolata “Preghiera per i minatori di Gessolungo”. “La scrittura”, dice ancora Giusi Diana, “sospende la tragedia appena avvenuta nel tempo immobile della ritualità umana. E’ quanto avviene nell’installazione di Salvatore Salamone che ci appare infatti sotto le spoglie di un altare, alla cui base troviamo i calzoni da lavoro dei minatori e i cristalli di zolfo, tragica offerta votiva. La sommità dell’installazione culmina con delle tavole di argilla cruda su cui sono impressi i caratteri di una misteriosa vaticinante scrittura, quasi a ricordare il fatalismo endemico nella cultura isolana riassumibile nel motto: Così era scritto”.

Per l’opera di Franco Spena riportiamo alcune espressioni di Giusi Diana: “Partendo dall’assonanza linguistica tra il pane di zolfo, (termine col quale si definisce un prodotto della lavorazione dello stesso), e il pane vero e proprio, Spena dà vita ad una immagine poetica a tre dimensioni, una metafora oggettuale di grande impatto visivo. Le forme di pane sul pavimento del museo si alternano ai pani di zolfo originando i raggi di quello che a prima vista sembrerebbe un sole, ma in realtà è un ostensorio. Al centro infatti la raggiera confluisce in un piccolo sacrario di lettere (derivate dai nomi dei minatori morti nella tragedia) che proprio come in una eucaristia laica sono immerse dentro un calice. Dolente metafora del sacrificio tutto umano e terreno compiuto dai minatori  nel nome del lavoro”.

Suggestiva e fortemente evocativa è l’installazione di Giusto Sucato che costruisce una grande croce distesa sul pavimento costituita da una serie di picconi. A proposito Giusi Diana dice: “L’elemento oggettuale diventa in questo caso simbolo eloquente di una tragedia collettiva, facendosi interprete del sentimento religioso di una intera comunità. Una pietas cristiana sovrintende infatti alla creazione della croce monumentale realizzata con 14 picconi di ferro con la punta rivolta verso la terra. La mancanza dei bastoni suggerisce drammaticamente l’assenza di quelle braccia che li utilizzavano quotidianamente”.

Agostino Tulumello presenta dei grandi pannelli la cui composizione ruota ai margini di una antica foto di processione. Ogni pannello è caratterizzato da una frase tratta da un libro della scrittrice Hamilton Caico che si riferisce al mondo della miniera. “Il potere liricamente evocativo della parola (le frasi che si accompagnano ai grandi tableaux)  e l’immagine-documento (la fotografia d’epoca) nell’opera di Agostino Tulumello” dice ancora il critico Giusi Diana, “dialogano con una composizione che si affida ad un linguaggio sostanzialmente aniconico, tutto basato sulla vivace cromia. L’utilizzo dell’oro unito agli acidi colori pop della texture sovverte l’apparente algido minimalismo della composizione, declinando verso una visione più calda ed emotiva”.

 

FRANCO SPENA